Tre nipoti, 11 pronipoti e molti altri pronipoti: questa è solo una parte della tenace eredità di Heinrich Ramras (1887-1944) un mercante tessile di Vienna che fu imprigionato nel campo di internamento di Urbisaglia dal 1941 al 1943 e che fu poi trasferito ad Auschwitz, per non tornare mai più.
«Non sapevamo nulla della storia di nostro nonno»: il dolore troppo grande che ha ammutolito intere generazioni ha costretto quelle seguenti, quelle dei figli dei figli, a cercare risposte nelle soffitte, nelle cantine, dentro vecchi cassetti e scatoloni. È così che tre fratelli, Yedidya Games Honig, Jehudit Naomi Eduard e Ilana Shaul, sono infine riusciti a ricostruire la storia della loro famiglia: ritrovando le lettere che il loro nonno, Heinrich Ramras, aveva scritto alla loro madre Gertrude dal campo di internamento di Urbisaglia, perché Gertrude non è mai riuscita a raccontare loro nulla delle vicende che hanno infine portato i suoi genitori, Heinrich Ramras e Anna Schroetter, a essere uccisi ad Auschwitz.
Il nome “Urbisaglia”, scorto in quelle carte, li ha portati a scrivere al Comune, che li ha messi in contatto con Giovanna Salvucci, la quale, ormai da diversi anni, sta meticolosamente ricostruendo le vicende dei numerosi internati che dal 1940 all’agosto del 1943 vissero nel Palazzo Bandini.
Gertrude sopravvisse alla Shoah perché il padre riuscì a mandarla in Gran Bretagna, dove si sposò e nel nel 1947 si trasferì in Israele con i tre figli Ilana, Yedidya e Jehudit (grazie a dei certificati falsi).
Così, grazie ai documenti conservati nell’archivio del comune di Urbisaglia, i tre nipoti di Heinrich Ramras sono riusciti a infilare qualche tassello in più nel puzzle degli ultimi anni del loro nonno, e hanno deciso di intraprendere un viaggio per ripercorrere le ultime tappe della sua vita.
La visita al complesso abbaziale li commuove: «È assurdo che un posto così bello sia stato usato per fare la guerra,» commenta Jehudit. «Siamo felici di vedere che nostro nonno ha vissuto gli ultimi tre anni della sua vita in un luogo così bello, anche se dopo è seguito il luogo peggiore al mondo. Ci fa piacere vedere che ha vissuto in un luogo dove ha potuto avere una vita sociale, dove ha potuto sentirsi un essere umano, pur durante gli anni peggiori della storia del popolo ebraico.»